Hey, puntata speciale dopo la pausa pasquale! Valerio Bassan, esperto di digital media e autore della bellissima newsletter Ellissi, ha recentemente scritto un libro “Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla», Chiarelettere. E oggi sono molto felice di riportarne un estratto qui su Technicismi.
Se la newsletter ti piace, droppa come al solito un cuoricino qui sopra. Se ti va di farci sapere cosa ne pensi, io e Valerio siamo felici di parlarne nei commenti qui sotto!
- Riccardo
🔎 Guest post
di Valerio Bassan (Ellissi). Tratto da «Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla», Chiarelettere
Fin dal Medioevo l’advertising, parola che deriva dal latino advertere (“girarsi verso”, “deviare”), aveva sempre funzionato allo stesso modo: qualsiasi luogo, avvenimento o contenuto fosse in grado di attirare e mantenere l’attenzione delle persone offriva alle attività commerciali la possibilità di promuoversi e di farsi notare. L’obiettivo è sempre stato, appunto, quello di “deviare” l’attenzione del pubblico, di catturare il suo interesse, di farlo “girare verso” un prodotto all’interno di una vetrina, su una bancarella, raffigurato in fotografia. Di fargli «prestare attenzione».
Io ho sempre trovato curiosa questa espressione, «prestare attenzione». L’attenzione, sembra dirci questa locuzione, è qualcosa che «abbiamo», e che diamo temporaneamente a qualcuno, il quale dovrà prima o poi restituircela. Come se fosse un’interruzione temporanea di volontà, in cui però siamo noi a scegliere di effettuare consapevolmente quel gesto. In verità, non siamo noi a scegliere a chi o per quanto vogliamo «prestare» la nostra attenzione. La pubblicità punta piuttosto a prendersi la nostra attenzione, e raramente ci chiede il permesso.
In inglese, infatti, l’espressione è diversa: «to pay attention», che potremmo tradurre letteralmente con «pagare attenzione». È forse più veritiera: l’idea che l’attenzione sia simile a una «moneta» che usiamo all’interno di uno «scambio» o di una «transazione». Ma se di una transazione si tratta, noi che cosa ci guadagniamo, esattamente?
Quando si studia la storia di Internet è impossibile non incappare nella frase «Information wants to be free». La celebre citazione è tradizionalmente attribuita a Steward Brand, il fondatore di The WELL e del Whole Earth Catalogue, che l’avrebbe pronunciata per la prima volta nel 1984 durante l’Hackers Conference di San Francisco, in una conversazione con il co-fondatore di Apple Steve Wozniak. Rileggendo la trascrizione integrale dell’intervento, però, si notano delle sfumature contraddittorie che non emergono dalla citazione originaria (come spesso accade con le citazioni): «Da un parte l'informazione vuole essere “costosa” perché è molto preziosa. L'informazione giusta nel posto giusto cambia la vita delle persone. Dall'altra, l'informazione vuole essere “gratuita”, perché il costo per diffonderla è sempre più basso. Queste due cose sono in lotta l'una contro l'altra», spiega Brand. «A che punto di questo processo il nostro tempo diventa remunerato abbastanza bene o troppo poco? Il problema è del mercato».
È proprio questa lotta, questa inestinguibile tensione di mercato, che ha contraddistinto l’evoluzione di Internet e dei suoi modelli commerciali. Se da un lato gli utilizzatori della rete - grazie alla pubblicità - non dovevano più aprire il portafogli (fisico o virtuale che fosse) e le aziende potevano beneficiare della scalabilità di un modello aperto le cui barriere d’accesso erano state abbattute, allo stesso tempo la gratuità percepita di Internet ha dato vita altri tipi di pagamento, non necessariamente migliori di quelli originari. Gratis, su Internet, non vuol dire mai davvero gratis: significa che la transazione è invisibile e che la valuta utilizzata per effettuarla è intangibile. Per ottenere quello che vogliamo, però, che cosa stiamo sacrificando, in termini di privacy e di sicurezza? Quali effetti hanno le nostre scelte - o non-scelte - nell’alimentare le contraddizioni e i «problemi del mercato»?
Oggi Internet è diventata quella “cosa” che avviene tra una pubblicità e l’altra: una gigantesca Hampster Dance, una «ruota del criceto» costruita per espandere la nostra capacità di attenzione e al contempo per toglierci il nostro diritto a distrarci. Non fu la pubblicità ad adattarsi al mezzo tecnologico, riscrivendo le proprie regole. Fu Internet a cambiare pelle, modificando via via la propria struttura per abbracciare il nuovo modello, che per funzionare al meglio aveva bisogno di grandi masse di utenti. Un modello che ha fatto diverse vittime - tra cui la nostra privacy - e che Ethan Zuckerman, ideatore del primo pop-up e diventato poi attivista per i diritti digitali, ha definito «sbagliato, rotto e corrosivo». Per Zuckerman la pubblicità fu «il peccato originale del Web», come scrisse nel 2014. Chi ha saputo governare meglio questo processo dal 2000 a oggi - ovvero le piattaforme - si è assicurato il dominio della rete. Facebook, Google, YouTube, TikTok e Amazon hanno tutte qualcosa in comune: la loro frenetica ricerca nell’attrarre attenzione e nel rivenderla, creando enormi giacimenti di dati e di informazioni. E riuscendo, a tutti gli effetti, a fagocitare Internet.
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🔥 Le news della settimana
Sono settimane complicate per Tesla che nel primo quarter del 2024 ha annunciato per la prima volta un calo di produzione e di consegne delle sue auto (433.371 auto prodotte nel primo trimestre 2024 e 386.810 auto consegnate rispetto alle 440.808 auto prodotte e alle 422.875 consegnate ai clienti nel primo trimestre 2023). In un contesto di mercato che continua a crescere, Tesla è una delle aziende che da inizio 2024 ha riportato la peggior performance in Borsa, con un -35%. L'azienda ha attribuito il calo a un aggiornamento dello stabilimento di Fremont e alle chiusure dovute al conflitto del Mar Rosso e al presunto incendio doloso alla Gigafactory di Tesla a Berlino all'inizio di marzo.
Nel frattempo pare che sia stato cancellato definitivamente il progetto di un’auto entry level (la “Model 2”) a favore della presentazione del robotaxi, il sogno di Elon Musk, che dovrebbe avvenire a inizio Agosto (dopo anni di continui ritardi)Artifact era l’app fondata da Kevin Systrom, co founder di Instagram, che prometteva di creare un news feed personalizzato attraverso l’AI. Dopo un hype gigantesco iniziale, l’azienda aveva annunciato la chiusura del servizio (che è comunque andato avanti fino ad inizio Aprile). Ora la tecnologia verrà integrata in Yahoo, che ha comprato l’azienda. Nel frattempo, anche in Italia il team di Column News sta lavorando a un progetto simile molto interessante
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La mia nuova ossessione è Suno, l’AI simile a ChatGPT che permette di creare un’intera canzone da un semplice prompt e che, secondo Rolling Stones, sta già cambiando il modo di produrre musica
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